Quando la malattia di Huntington entra in famiglia: una testimonianza

Quando la malattia di Huntington entra in famiglia: una testimonianza

Ringraziamo A.L.B. per averci consentito di tradurre e pubblicare la sua storia.

 

Salve a tutti,mi chiamo A.L.B e vorrei raccontarvi la mia storia.

Il 22 giugno del 1999, ironicamente il giorno del mio 14mo anniversario di matrimonio, la vita della mia famiglia è cambiata per sempre con quattro semplici parole: “non ho buone notizie.

Io e mio marito D. ci trovavamo presso l’Unità di Genetica dell’Ospedale di Crumlin e avevamo appena saputo che il test di D. per la malattia di Huntington era positivo. Non solo: la malattia stava avanzando, proprio come avevamo sospettato. Tuttavia, un conto è sospettare che qualcosa possa essere possibile, perché c’è sempre un barlume di speranza che possa essere qualcos’altro, un altro è ricevere una diagnosi ufficiale, che distrugge qualunque speranza.

Vado indietro nel tempo di molti anni, per raccontare brevemente la mia storia, fino al 1980 quando incontrai un uomo meraviglioso e gentile. Mi raccontò come si sentisse fortunato ad essere vivo poiché l’anno precedente aveva avuto un grave incidente in moto,in cui aveva riportato numerose e importanti ferite al capo. Il suo recupero era stato positivo e sembrava non aver subito gravi e duraturi effetti dell’incidente. Era un momento molto duro per la sua famiglia, perché nello stesso anno era stata diagnosticata anche la malattia di Alzheimer a sua madre.

Ci siamo sposati nel 1985 e nei successivi 6 anni abbiamo avuto 3 figli. Prima della nascita del mio ultimo figlio nel 1991, iniziai a notare  che mio marito aveva dei comportamenti “al di fuori del suo carattere”, ma imputavo questi sintomi inusuali ai possibili effetti a lungo termine delle ferite riportate alla testa. Nel 1996 la diagnosi iniziale di Alzheimer di mia suocera diventò una diagnosi di ' malattia di Huntington'. Quando scoprii che la malattia di Huntington era entrata nella mia famiglia, quello che provai fu “terrore puro”. Sospettavo fortemente che anche D. potesse esserne affetto. La malattia gli venne diagnosticata ufficialmente 3 anni dopo, quando D.  presentava già diversi sintomi. Stavo perdendo mio marito, il mio compagno di vita e il mio migliore amico. Avremmo perso le nostre speranze per il futuro, i nostri progetti ed i nostri sogni.

Tuttavia il pensiero più terrificante di tutti riguardava principalmente come dirlo ai nostri bambini e, in secondo luogo, pensare al fatto che avessero il 50% di possibilità di aver ereditato la malattia. 

A quel tempo io ero la moglie e la madre non affetta,  l’unica non a rischio e l’unica che non avrebbe mai sviluppato la malattia, sebbene l'Huntington avesse drammaticamente  cambiato, definito e dato una nuova forma alla mia vita. Diventai la figura centrale nella mia famiglia, ma allo stesso tempo ero l’outsider, colei che non sarebbe mai stata a rischio di sviluppare la malattia di Huntington.

Poiché mio marito era già sintomatico, decidemmo di avere un approccio completamente aperto nei confronti della malattia. Non la nascondemmo; parlammo con i nostri figli, rispondendo ad ogni loro domanda al riguardo. Rendemmo le informazioni più semplici possibile in modo che le potessero comprendere. Spiegammo loro che quando un bimbo nasce non è in grado di camminare o parlare o fare qualunque cosa da solo  e deve imparare lentamente come fare. La malattia avrebbe fatto dimenticare a papà come fare queste cose e gradualmente non sarebbe stato più in grado di camminare, parlare etc. La malattia di Huntington è diventata un argomento normale di conversazione, come nella maggior parte delle famiglie lo possa essere parlare dei  successi sportivi.

Come genitore, l’unica cosa che vuoi nella tua vita è proteggere i tuoi figli. Quando arriva la malattia di Huntington, non puoi più farlo. Ti senti così inutile, superfluo e privo di controllo. Sapendo di dover aspettare molti anni prima che uno dei figli fosse grande abbastanza per potersi sottoporre al test, mi sentivo in un certo senso come avvolta da una rete di protezione. Non dovevo confrontarmi con la loro situazione, quantomeno non nell’immediato. Questo dava alla mia mente uno spazio per respirare.  Fortunatamente avevo questo spazio perché per il resto ero talmente impegnata. Ero mamma e papà, l’unica fonte di sostentamento economico, ero il tassista e l’organizzatrice di tutto ciò che caratterizzava la nostra vita.

Col tempo i sintomi di D. divennero imprevedibili e non governabili. Soffriva di ansia cronica e agitazione. Saltava continuamente su e giù colpendo e calciando qualunque cosa incontrasse sul suo cammino. Mi spiegò che sentiva come se ci fosse un vulcano dentro di lui pronto ad eruttare, ma senza riuscirci. Non poteva alleviare la tensione che sentiva crescere dentro di lui e che non riusciva a sopportare. Sfortunatamente per me e i bambini ci trovavamo diverse volte nella sua traiettoria, riportando regolarmente seri colpi e lividi. Imparammo tutti a schivarlo in maniera professionale, pur di non trovarci sulla sua strada. A quel tempo qualcuno doveva stare sempre accanto a D. quando tremava, per cercare di contenerlo prima che cadesse o per togliere quanti più oggetti possibili attorno a lui. Questo si verificò ogni giorno per circa 22 ore al giorno per molti, molti anni. Sia io che i miei figli eravamo totalmente esausti. Sfortunatamente per me, ogni qualvolta accompagnavo D. dal suo medico di base o dal neurologo, lui (come molti altri ammalati) riusciva a “ricomporsi” e a sembrare quasi “normale”. Quando raccontavo ai medici dell’aumentare costante dei suoi sintomi, stentavano a credermi. Ho delle relazioni mediche nelle quali viene riportato come “la povera moglie non riesca a gestire molto bene la situazione” o forse “si potrebbe considerare una terapia farmacologica per la moglie”.

Non solo non riuscivo a proteggere i miei figli dai terribili sintomi e conseguenze causate dalla malattia del loro padre, ma li costringevo a prestare assistenza al loro papà sin da un’età molto giovane. I supporti di assistenza sanitaria a nostra disposizione non erano adeguati o sufficienti a far sì che i miei figli si potessero scrollare il ruolo di caregivers di dosso.

Fortunatamente, un giorno durante una visita neurologica, D. non riuscì “a contenersi”, devastando la sala d’aspetto. Irruppe nella stanza per vedere il neurologo, il quale a sua volta era preoccupato per quanto stava accadendo. Mi guardò, volendomi comunicare con quello sguardo tutto: “mio Dio, allora la moglie stava dicendo la verità. Da quel giorno in poi le cose cambiarono. Vennero organizzati dei ricoveri di sollievo e organizzati dei sistemi di supporto alla famiglia. Ripensando a quel periodo, ricordo che mi sentivo molto arrabbiata e frustrata; successivamente i medici ebbero la possibilità di valutare in prima persona i comportamenti di mio marito e poter pianificare le strategie di trattamento più adeguate. 

Uno dei posti in cui D. venne ricoverato era il Cherry Orchard Hospital che divenne presto la sua nuova casa. Suor Marion, responsabile della struttura a quel tempo, fece della necessità di trovare vitto e alloggio adeguati alle necessità di D. una missione personale. Non saprà mai quanto è enorme la nostra gratitudine nei suoi confronti, nonostante glielo abbia detto molte volte, o quanto il suo comportamento sia stato determinante nel salvare la nostra famiglia. Lei ed il suo staff non solo si sono presi cura di D., ma si sono presi cura anche di tutti noi, continuando a farlo ancora oggi. Il loro supporto non deve essere sottovalutato poiché prezioso per il benessere delle famiglie.

La nostra figlia maggiore, A., ha sempre detto che voleva sapere se aveva ereditato o no il gene malato. Faceva il conto alla rovescia relativamente ai propri anni: al compimento del suo 18° compleanno è venuta da me e mi ha chiesto il numero di telefono della clinica genetica.

Ora era reale, non ci si poteva più nascondere, ora dovevo sostenere il fatto che mia figlia stava affrontando la scelta di sottoporsi al test.

Ha aspettato 7 mesi per il primo appuntamento, che è stato seguito dai soliti 6 mesi di attesa per l’elaborazione del test. Durante quel periodo mi sono sentita come se fossi in un mondo surreale, non c’era un momento, non un singolo secondo, in cui l'Huntington non consumasse ogni pensiero nella mia testa. Non potevo sentire null’altro, vedere nient’altro. Era il mio primo pensiero al mattino e l’ultimo la sera. Lottavo per apparire calma e rassicurare mia figlia che avremmo affrontato qualunque risultato e che tutto sarebbe andato bene. Aspettando per l’esito più duro, più demolente per l’anima. Ti senti debole, inutile e spaventato.

Il giorno del risultato del test arrivò. Andammo presso la clinica genetica dell’ospedale di Crumlin. In ospedale diverse linee colorate sul muro indicano l’area desiderata. Il colore della linea della clinica genetica era il grigio, così seguimmo la linea grigia lungo molti corridoi. Potevo sentire l’eco dei nostri passi, potevo sentire il mio cuore battere nel mio petto, lottavo per respirare normalmente. Supplicavo Dio di avere buone notizie, avrei fatto un patto col diavolo per avere notizie rassicuranti. Mi sentivo così persa e sola, non avevo il supporto di mio marito e di gran parte della mia famiglia e degli amici, molti dei quali scomparsi nel momento in cui si deve affrontare una malattia come questa. Non avevano la volontà o la capacità di impegnarsi per dare un supporto che potesse durare tutta la vita. Così tante emozioni.

Ci sedemmo in una sala riunioni e aspettammo che l’infermiera arrivasse. Era una stanza piccola e bastavano solo quattro passi per raggiungere la sedia. Quattro passi e Quattro parole. Non sono buone notizie. Ho sentito la mia vita fermarsi. Posso ancora sentire lo shock, l’angoscia, l’incredulità e il terrore. Sebbene uno sappia che c’è la possibilità di ricevere brutte notizie, nulla ti prepara a questo. Ero persa, dove sarei andata. Mi sentii inutile come genitore, non potevo proteggere la mia bambina, non la potevo salvare. Il mio cuore era così spezzato che sentivo non avrei più veramente vissuto, non  mi sarei più sentita normale.

Provai ad essere forte, ma fallii. Provai ad indossare la maschera del coraggio, ma fallii. Volevo piangere ma avevo paura che non mi sarei più fermata. Ero paralizzata e totalmente shockata. Con mia vergogna, fu mia figlia di 19 anni ad essere la più forte quel giorno. Andammo via e tornammo a casa per dire a tutti il risultato.

Per me divenne tutto una gigantesca contraddizione. Potevo essere circondata da gente ma mi sentivo comunque completamente sola. Tutti i sensi erano paralizzati e al tempo stesso amplificati, in allerta. Volevo parlare ma non avrei sopportato di dar fiato alle parole. Volevo un abbraccio ma non volevo essere toccata.

E’ stato necessario un lungo periodo per assorbire una notizia del genere. Ma lentamente, nel tempo ce l’ho fatta, dovevo farcela. La routine della vita ha preso il sopravvento. Dovevo ancora preparare cene, dovevo ancora lavare vestiti e dovevo ancora andare al lavoro. Ho imparato a sorridere in pubblico ma a piangere in privato.

Sono passati 7 anni. Un giorno mio figlio S., il minore, è venuto da me e mi ha chiesto quale fosse il numero della clinica genetica. Di nuovo, ora era reale, ora dovevo affrontarlo di nuovo. Essere passata già attraverso quel processo non lo rendeva più facile la volta seguente.

Di nuovo sperimentai le stesse emozioni, di nuovo mi sentii perduta e sola con poco o alcun supporto, di nuovo mi ritrovai a supplicare Dio di darci buone notizie, di nuovo camminavamo per quei lunghi corridoi seguendo la linea grigia. Da allora l’ho chiamato il miglio grigio, poiché mi dava l’impressione di un percorso estremamente lungo.

Arrivai ad odiare il colore grigio. 

Di nuovo anche questa volta. Quattro passi ma solo tre parole, sono buone notizie. Il mio cuore si è fermato. Non potevo crederci. Sentivo gioia assoluta e felicità. Poi la realtà si fece avanti. Dovevo andare a casa e dire ad A., che era risultata positiva, che il proprio fratello era negativo. Quel giorno, guidando verso casa, fu ancora una delle più contraddittorie esperienze della mia vita, non vedevo l’ora di andare a casa per condividere le buone notizie che riguardavano S., ma allo stesso tempo temevo di doverlo dire ad A. 

Era realmente sorpresa. Era realmente felice per lui. Ballò in cucina con lui. Questo è stato il momento più dolce ed amaro che io abbia avuto  nella mia vita. Non lo dimenticherò mai. Più tardi quel giorno mia figlia andò da un gioielliere locale e mi prese un bracciale. Me lo diede dicendomi che era il bracciale delle buone notizie. Non era molto costoso, ma non me ne sarei separata per tutto l’oro del mondo. Mi ricorda costantemente che talvolta, nel bel mezzo delle tenebre, c’è luce.

Nel tempo ho iniziato a veder soffrire S. Da una parte potevo vedere il sollievo e la felicità che provava per se stesso, ma dall’altra, il dolore e la colpa che sentiva nei confronti di sua sorella. Molte volte ha detto che A. era così intelligente, divertente, buona..”perché lei sì ed io no.

Ancora una volta mi sono sentita inutile come genitore. Non lo potevo confortare. Non potevo alleviare il suo dolore, la sua colpa, potevo solo parlare con lui e sperare che da solo trovasse pace verso se stesso.

Anche le buone notizie portano dolore.

Allo stesso tempo A. venne da me e disse che era felice di essere la sola ad aver ricevuto il test positivo e che il fratello fosse invece risultato negativo. Sentiva che sarebbe stata più capace nell’affrontare un esito negativo. I genitori non dovrebbero mai avere conversazioni del genere con i propri figli. 

La mia seconda figlia G. non si è ancora sottoposta al test. Lo farà al momento giusto per lei, o potrà scegliere di non fare mai il test. E’ una sua scelta. Io non posso interferire e non interferirò. La sola cosa che so è che se e quando deciderà di fare il test dovremo percorrere nuovamente il miglio grigio e come famiglia lo affronteremo insieme e affronteremo il risultato.

Incredibilmente, convivere con la realtà dell'Huntington sin dai primi anni di vita ha fatto focalizzare i miei figli non sulla malattia o sulla morte, ma sul vivere la vita appieno. Abbiamo una veranda che, come molte persone, è usata in estate e mai in inverno. Loro hanno cambiato questa stanza in una stanza delle mappe. C’è una grande mappa del mondo sul muro e ognuno ha una puntina di diverso colore. Loro pianificano i loro viaggi intorno al mondo, i diversi paesi in cui hanno vissuto e visitato. Hanno vissuto in Canada, America, Vietnam, India e Sud Africa e ne hanno visitati molti e molti di più. Collezionano i souvenir che poi vengono  esposti. Inizia a sembrare un negozio di souvenir internazionali, ma per loro è un promemoria dei loro risultati da tenere in agenda e delle opportunità e possibilità per il futuro.

Mio figlio ha preso possesso del garage e passa diverse ore là dentro. Sta cercando di capire perché suo padre ha comperato alcuni strumenti e per cosa li usasse. Dice di sentirsi più vicino a suo papà nel garage più che in qualunque altro posto. Sfortunatamente nessuno dei miei figli ha memoria di un “papà normale”, conoscono solo un papà malato e come è prendersi cura di lui per tutta la loro vita.

I miei figli sono diventati una squadra unita. Sono forti, sono divenuti più capaci, gentili e più comprensivi di altri. Condividono un legame e un amore così profondo; è un privilegio esserne testimone. Li amo non solo perché sono i miei figli, ma anche perché sono veramente delle brave persone. Nulla nella mia vita mi ha ispirato e mi ispira più della mia famiglia. Quando mio marito D. ricevette la diagnosi nel 1999 affrontò il suo destino con  incredibile dignità e senso di accettazione. Non ha mai indugiato nell’autocompatimento, ma piuttosto si è fatto carico del peso e della responsabilità di averla potuta trasmettere (sebbene involontariamente) ai suoi figli.

L’unica volta in cui l’ho visto piangere è stato quando la nostra figlia maggiore A. è risultata positiva al test nel novembre 2005. 

Quando A. risultò positiva, quella fu una notizia ancora una volta shockante da digerire e, come suo padre, anche lei affrontò il destino con incredibile dignità e accettazione. A. e i suoi fratelli sapevano che ora la malattia era passata “alla loro generazione”, non utilizzando mai questa come scusa per mollare nella propria vita. Sono riusciti a trasformare un evento così negativo in qualcosa di positivo. Affrontano ogni sfida, utilizzano ogni opportunità lottando per migliorare le proprie esistenze e godersi la vita. Tutti gli slogan che le persone menzionano a casaccio tipo “vivi alla giornata”, “non ti fasciare la testa prima di rompertela” i miei figli li adattano realmente alla vita quotidiana.

Come madre, non posso nascondere il fatto che questa malattia devastante ci abbia distrutti ma, d'altro canto, è anche vero che ci ha resi quello siamo oggi. 

Quando sento di non avere più la forza per andare avanti, penso alla mia famiglia e ritrovo la motivazione.

A.L.B