Roberta - Storie di Huntington

Roberta

Mi chiamo Roberta e ho 51 anni. Sono madre di tre figli maschi, tre figli a rischio, li definisco…

Ho conosciuto il loro papà quando avevo poco più di 20 anni. Era bello! Una via di mezzo tra Paul Newman e Kevin Costner. Era gentile. Era generoso. Un gran lavoratore.

Che fortuna! Pensavo io….

Che fortuna! Dicevano le mie amiche con una punta d’invidia….

Ma dove l’hai trovato?

La vita, da quel giorno, ha preso la sua strada, con alti e bassi, curve e rettilinei, salite e discese, giorni di sole e giorni di tempesta. Servirebbe un libro intero per raccontare.

La “malvagia” l’ho incontrata anni più tardi e si nascondeva subdolamente nei panni dello zio paterno di mio marito, il quale -con la moglie- viveva a circa 60 chilometri da noi.

Una coppia insolita: senza figli, a lei mancavano alcune falangi delle dita (cosa che all’epoca mi colpì moltissimo) e lui invece barcollava, scuoteva il capo e sul viso aveva un sorriso simile ad una smorfia. La zia sosteneva che avesse la stessa malattia del pugile Cassius Clay, perché per alcuni anni aveva praticato lo stesso sport a livello amatoriale. Ricordo il suo  fumare compulsivamente  una sigaretta dietro l’altra, ricordo che beveva il caffè rovesciandosene gran parte sulla maglietta, ricordo il chiacchierare incalzante di sua moglie che parlava contemporaneamente di pugilato, di servizio militare, che si riteneva fortunata per non avere avuto figli, la testa dello zio che annuiva e il suo corpo che si muoveva, la mano che tremava, la smorfia sul viso.

Che fortuna - ho pensato – non vorrei mai essere al loro posto! Abbracciavo mio figlio ed ero grata per ciò che avevo.

Invece, anni più tardi, quando era già nato anche il mio ultimo bambino, ho saputo che la malvagia (della quale fino ad allora ignoravo anche  l’impronunciabile nome) avrebbe potuto far parte anche delle nostre vite. A mia cognata infatti, dopo un inter diagnostico durato anni, era stata riconosciuta proprio la malattia dello zio che, purtroppo, non era certamente quella che aveva colpito Cassius Clay, cioè il Parkinson.



La mia seconda  terrificante vita è iniziata. Ma non da un giorno all’altro. Dapprima il sospetto e la paura si sono insinuate nella mia mente e ho cominciato a trascorrere le notti insonne, cercando affannosamente notizie sul web. Ne trovavo tante di notizie e ogni volta brividi di freddo mi trafiggevano il corpo, dalla testa ai piedi, lasciandomi in uno stato di allucinazione e angoscia che non sono in grado di descrivere. Stampavo alcune notizie e poi le nascondevo in mezzo ai libri, come se in questo modo la realtà che mi si stava prospettando potesse essere ugualmente celata.



Una sera, quando ormai la speranza  aveva lasciato spazio al dubbio, mio marito è inciampato mentre teneva tra le braccia il nostro bambino. Ho emesso un urlo disumano e agghiacciante, agli occhi dei presenti non giustificabile dal piccolo incidente che, di fatto,  non aveva avuto particolari conseguenze.

-    Non è successo nulla- mi aveva rassicurata lui.

Invece io avevo capito e da allora nulla più è stato lo stesso.



Da quel momento gli eventi sono precipitati e l’intera nostra famiglia è stata travolta da una tempesta senza precedenti. Io sono letteralmente impazzita, il mondo che conoscevo era scomparso, i miei progetti spazzati via e la vita dei miei amatissimi figli messa a rischio, un rischio che valeva quanto una moneta lanciata in aria: testa o croce. Croce perdi. Testa vinci.

Avrei dovuto lanciare tre volte la moneta e ottenere tre volte testa.

Ho dovuto chiedere aiuto: psichiatra, psicologo, farmaci…

Ho dovuto resettare il passato, i progetti, la mia ambizione, la mia spavalderia e adottare una nuova visione della vita e dei suoi significati.



Ho dovuto limitare gli orizzonti, fare pace con i sensi di colpa per non aver capito prima, non essere stata in grado di intuire o prevedere, leggere tra le righe i piccoli segnali che mi erano stati offerti.



Ho dovuto perdonarmi per non essere stata in grado di mantenere unita quella strana famiglia che i era rimasta, per non aver protetto i ragazzi, per non essere stata capace di prendermi cura di mio marito.



Ho dovuto far pace con me stessa, accettare e accettarmi per quella che sono, ridimensionando di volta in volta le mie paure, per fare in modo che l’idea della malattia non prenda il posto della malattia stessa, sostituendo i pensieri  a ciò che è reale.

Ma, soprattutto, ho dovuto imparare ad apprezzare ciò che ho oggi: una cena insieme, un bel voto dei ragazzi a scuola, una gita fuori porta, un semplice sorriso o un regalo inaspettato.



Abbraccio i miei ragazzi quando sono tristi e preoccupati, provo a trasformare le loro lacrime in sorrisi, ogni mattina indosso la corazza che mi permette di vivere e lasciar vivere chi mi circonda, nell’attesa, come tutti noi, che grazie alla ricerca si  trovi una cura.

Roberta - Storie di Huntington