Huntington e Coronavirus (responsabile della sindrome COVID-19)
20/03/2020
di Ferdinando Squitieri
Mi preme fare il punto di questa situazione terribile che viviamo per diversa sorte e condizione: i pazienti e le loro famiglie da un lato, e noi operatori di settore impegnati nella lotta a questa malattia dall’altro. Che siamo medici, psicologi, biologi, infermieri o amministrativi cambia poco: in inglese saremmo definiti tutti “professionals” che è un termine breve, chiaro e sintetico. Comunque, una volta tanto, che si tratti di pazienti o di “professionals”, tutti abbiamo un comune denominatore: vulnerabilità e paura. Se poi pensiamo all’Huntington, aggiungerei una terza prerogativa: l’imprevedibilità, che da sempre caratterizza la vita di chi soffre di questa malattia e che, per quanto riguarda l’evoluzione dei sintomi, conosce bene chi li accompagna come caregiver. Dunque, considerata l’esperienza che le famiglie con persone ammalate o a rischio di malattia di Huntington vivono tutti i giorni, sono certamente loro i più forti perché con la paura e l’imprevedibilità si misurano quotidianamente. Pertanto, eviterei di cadere nei luoghi comuni, ormai ampiamente diffusi nel web, nei social ed in TV, ove si richiama all’attenzione del rischio di COVID-19 su una malattia semplicemente perché è rara: che sia rara come l’Huntington o come la SLA e 8000 altre cambia poco; ciò che fa la differenza è la fragilità che, a prescindere dalla rarità, è caratteristica di chi soffre di una malattia grave come può essere una demenza tipo Alzheimer, un cancro, una malattia cardiovascolare oppure, appunto, la stessa malattia di Huntington.
Allora che cosa fa la differenza tra COVID-19 vissuto da una famiglia che ha il problema dell’Huntington e gli altri, inclusi noi “professionals”? Non cerdo la polmonite. Quella fa paura a tutti, anche se chi ha la malattia di Huntington o una fibrosi cistica o mille altre in fase avanzata, può avere una maggiore suscettibilità a problemi respiratori, così come, d’altra parte, un fumatore incallito. Se hai il virus, Huntington o non Huntington, rischi di essere, per fortuna raramente da quello che capisco, intubato in rianimazione. Dal mio personale punto di vista la maggiore differenza è nella gestione di un delicato equilibrio psicologico, sollecitato in maniera importante in noi tutti in questo momento: è lì che, se hai una fragilità, soccombi sotto le valanghe di informazioni di questi giorni. Per questo, nonostante il COVID, abbiamo scelto di mantenerci quotidianamente collegati con le centinaia di famiglie lasciando il nostro numero verde 800.388.330 regolarmente attivo (grazie Maria…!) e noi tutti “professionals” in stretto contatto con pazienti e caregivers. Lavoriamo ogni mattina incontrando le famiglie in un ambulatorio virtuale attraverso un monitor di un computer o di uno smartphone anticipando i tempi del progetto Europeo JPND-Healthe RND di telemedicina sulla malattia di Huntington e malattie rare neurologiche di cui siamo unici partner italiani. La nostra esperienza è che, in questo modo, le persone si sentono rassicurate e meno sole, ma anche che uno dei problemi principali che emerge è l’obiettiva difficoltà con cui le famiglie si misurano, legata alle variazioni dell’umore, alle ossessioni incontrollabili ed all’equilibrio precario di dinamiche tra familiari costretti ad occupare spazi ristretti, senza grandi vie di uscita, per tempi lunghi. Come si amministra l’ossessione di chi vuole uscire se gli è vietato, o vuole guidare se non può farlo, o vuole le sigarette che non può scendere a comprare in quel momento, o semplicemente non accetta di stare dentro casa? Non certamente con la minaccia di una ritorsione sul piano legale, tante volte, a prescindere, poco accettata come deterrente: chi ha un disagio mentale o semplicemente una rigidità, ha un’invisibile, ma grave, fragilità complicata dalla malattia di Huntington che la trasforma in un’ossessione, per cui non accetta facilmente restrizioni. Noi cerchiamo di aiutare come possiamo anche attraverso consigli pratici o medici e speriamo di essere di aiuto, ma bisogna ammettere che questo momento rischia di rompere equilibri già fragili. Di seguito alcuni esempi di disagi che emergono dall’esperienza del momento per i tanti malati di Huntington e dei loro cari:
1. Molti hanno dovuto interrompere la fisioterapia, logopedia o altre attività riabilitative.
2. L’irritabilità e l’aggressività, ancora contenute per ora, per quello che osserviamo, rischiano di esplodere.
3. L’umore già precario in tutti in questo momento rischia di avere un’implicazione ancora peggiore in chi vive il problema della malattia di Huntington.
4. I caregivers si misurano con difficoltà con le ossessioni nella quotidianità.
5. Chi attende un risultato di un test genetico vede tempi prolungarsi. Non è possibile né pensabile spedire per posta un referto (anche questo ci capita di sentire) e non sempre la Telemedicina può sostituirsi al contatto diretto.
E’ questo il momento in cui bisogna esserci, a distanza o in qualsiasi maniera possibile, per cercare di arginare tutto questo. Oserei dire che è questo il momento in cui si vede se i “professionals” sono veramente “professionals” e se un’organizzazione vicina alle famiglie ha veramente fini nobili ed è in grado di comunicare, come la “famiglia” LIRH (Fondazione/LIRH-Toscana/LIRH-Puglia/NoiHuntington) sta facendo e continuerà a fare fin quando la buona sorte lo consentirà, oppure è un mero contenitore di luoghi comuni, slogan, autoreferenzialità, scarsa sostanza e povera consistenza, se non addirittura vuoto. Non possiamo non sentirci particolarmente vicini ai tanti amici e famiglie del nord dell’Italia che stanno vivendo un autentico incubo in questo momento. Siamo certi che questa sciagurata situazione prima o poi finirà.
Il SARS-CoV-2, responsabile di COVID-19, è sicuramente un brutto virus capace di far molti danni ma attenzione a quello che si sente in giro e permettetemi di dire la mia al riguardo. Una lettera pubblicata il 17/3/2020, praticamente in questi giorni, su quello che ritengo sia il più rilevante giornale medico del mondo che è The New England Journal of Medicine, a firma di un team di colleghi nord-americani, descrive chiaramente la modalità con cui il virus si propaga: rimane in media circa 6 ore sull’acciaio, circa 7 sulla plastica, anche se rimane ancora rintracciabile per molte ore dopo, e circa un’ora nell’aria se vaporizzato: ma ciò che più sembra fare la differenza è quello che gli autori definiscono “high viral loads” (la quantità di virus) nelle alte vie respiratorie col rischio che, chi è portatore asintomatico e non sappia di esserlo, rischia di trasmettere la malattia esponendo chi è a stretto contatto al contagio massivo: questo va evitato rispettando le regole raccomandate dal nostro governo.
Infine, desidero fare una considerazione sulle sperimentazioni attualmente in corso che, un po’ ovunque, stanno subendo uno stop o dei rallentamenti. Speriamo che la situazione nei nostri ospedali migliori così da riprendere Generation HD1. Al momento non possiamo rischiare di esporre pazienti e familiari ad un contagio ed inoltre il personale degli ospedali è richiesto per funzioni assistenziali più urgenti. Tuttavia faremo del nostro meglio per riprendere appena le minime condizioni ce lo consentiranno seguendo direttive di governo e di organizzazione interna. Questo vale anche per i nostri programmi osservazionali come Enroll-HD e HDClarity che riprenderanno appena sarà possibile riaprire gli ambulatori, attualmente riservati solo alle emergenze.
Concludo augurando a tutti la forza necessaria per superare questo momento. Mai come in questa occasione è necessario fare fronte comune per proteggere una cosa difficile: la fragilità che non si vede.
Roma, 20 marzo 2020