Huntington e Suicidio: 10 Settembre - Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio
Nella malattia di Huntington il rischio di suicidi è molto elevato. Occorre vigilare con la dovuta attenzione, per tentare di prevenire situazioni estreme.
Molte parole 'difficili' sono legate alla malattia di Huntington: ereditaria, genetica, neurodegenerativa, rara, ma forse quella più difficile è proprio suicidio. In occasione della Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio, riteniamo importante fare una riflessione proprio su questa parola, la più difficile.
Antonio si prende cura della madre ammalata di Huntington da molti anni.
Insieme a loro vive anche il padre: anche lui ha gravi problemi di salute che sempre più spesso lo costringono a ricoveri ospedalieri. Antonio ha un fratello, ma di fatto è solo ad assistere i genitori, ed è così da sempre. L’umore di Antonio è, da tempo, parecchio depresso. Riferisce di sentirsi spesso triste, cupo, privo di speranza. Si sente così da anni ormai. L’esito del test genetico, purtroppo positivo, ha peggiorato il suo stato d’animo.
Nei momenti ‘no’ nemmeno la sua compagna riesce a trovare un canale di comunicazione con lui, perché si isola e rifugge ogni contatto umano. Antonio segue le indicazioni dei medici, si prende cura di sé assumendo correttamente i farmaci prescritti e non mancando mai agli incontri con il suo psicoterapeuta. Con il tempo, però, i sentimenti di tristezza e di disperazione si sono intensificati sempre di più, i momenti di isolamento sono aumentati, rimugina continuamente sulla sua condizione, su quella dei suoi genitori, si sente solo e senza speranza, non vede vie d’uscita. L’unico pensiero che lo solleva è quello di porre fine alla sua vita, per poter trovare finalmente un conforto personale e smettere di far soffrire le persone intorno a lui.
La storia di Antonio pone l’attenzione su un aspetto estremamente delicato e purtroppo frequente nelle famiglie in cui è presente la malattia di Huntington, ovvero l’elevato rischio di suicidio.
La malattia di Huntington, infatti, ha il triste primato di essere quella con il più alto tasso di suicidi in patologia umana, maggiore non solo rispetto alla popolazione generale, ma anche rispetto a chi soffre di altre malattie neurologiche, come ad esempio la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), la malattia di Parkinson o la malattia di Alzheimer.
Come si fa ad aiutare chi è a rischio di commettere suicidio?
Parlare
Parlarne non è facile, soprattutto per le persone più vicine: il partner, i figli, i genitori. L’argomento è già difficile di per sé. In più, la persona coinvolta tende ad isolarsi, non vuole condividere il suo vissuto emotivo.
“Invitiamo i familiari – afferma la dr.ssa Barbara D’Alessio, Presidente della Fondazione LIRH onlus’' – a parlarne con i clinici che seguono il paziente e, qualora non se la sentissero, li invitiamo a farlo con noi: possiamo aiutarli nel dialogo con il personale esperto e possiamo anche metterli in contatto con chi vive o ha vissuto situazioni analoghe” .
Osservare
Alcuni segnali o comportamenti possono rappresentare un campanello di allarme e devono attivare l’attenzione dei familiari guidandoli, in primis, verso strutture territoriali di primo soccorso, come ad esempio i servizi di salute mentale, oppure verso la richiesta di intervento da parte del medico specialista, neurologo o psichiatra. Una depressione del tono dell’umore persistente e caratterizzata prevalentemente da marcata perdita di speranza per il futuro, se associata ad una importante perseverazione del pensiero, facile irritabilità e ansia, rappresenta un quadro di rischio psicologico da non sottovalutare, che deve accendere un campanello di allarme.
"E’ infatti proprio la perseverazione di pensieri, comportamenti e azioni il più importante fattore che può indurre ad un’azione estrema come il suicidio, più della stessa depressione. Perseverare significa ripetere compulsivamente un pensiero o un’azione, caratteristica frequente ed evidente nelle fasi conclamate di malattia, ma spesso subdolamente presente anche in quelle molto iniziali e poco riconoscibili sul piano clinico", spiega il Prof. Ferdinando Squitieri, direttore scientifico della nostra Fondazione.
Agire
Altrettanto utile per una gestione a lungo termine dei comportamenti più a rischio, e dei pensieri suicidari ad essi correlati, è un approccio multidisciplinare al problema, che prevede un monitoraggio frequente da parte del medico specialista e dello psicoterapeuta per affrontare la problematica sia da un punto di vista farmacologico, sia comportamentale che cognitivo.
“Offrire al paziente (e al familiare) una gamma di possibilità e ‘strumenti’ da utilizzare soprattutto durante i momenti più critici può fare la differenza tra una storia con un epilogo tragico e una senza”, afferma il Dr. Simone Migliore, Neuropsicologo ricercatore dell’Unità Huntington Malattie Rare dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza/Mendel” .