Silvia
Nella numerosa famiglia di Silvia, la malattia di Huntington ha colpito molte persone, che hanno dovuto affrontare non solo la malattia, ma anche le maldicenze.
Silvia, 59 anni – Taranto
La malattia di Huntington l'abbiamo scoperta perché ce l'aveva mia mamma.
Mamma, dopo una diagnosi ricevuta all’età di 47 anni, si ammalò quando io avevo 7 anni. Lei è stata ammalata quasi 12 anni e poi è morta nel 1979. Io non ho ricordi di mia mamma sana. Nel vicinato venivamo discriminati perché dicevano che era pazza. Anche da quello che raccontano le mie sorelle più grandi, c’erano momenti in cui diventava irascibile, si arrabbiava con mio padre, lanciava piatti o qualsiasi cosa trovava davanti.
Mio padre l'ha portata da un neurologo e lì ci è stato detto che era probabilmente questa malattia, che poi è stata diagnosticata dalla Germania. A Bari le avevano tagliato un pezzettino di cervello che hanno mandato in Germania ad analizzare, mi ricordo che mia mamma era uscita dall'ospedale senza pelle, con un taglio sulla testa.
Con i familiari di mia mamma non abbiamo mai avuto rapporti perché loro, vedendola in quel modo, dicevano che era mio padre che la maltrattava. Quindi automaticamente mio padre li allontanò da casa. Non abbiamo mai saputo ufficialmente chi abbia trasmesso per primo la malattia in famiglia: abbiamo dedotto che potesse trattarsi del nonno materno, perché dicevano che era perennemente brillo. Solo dopo che è morto, abbiamo capito che il suo non era un problema di alcolismo.
Nella nostra famiglia ne abbiamo visti tanti ammalarsi e poi andare via.
Noi siamo 12 figli, eravamo 4 uomini e 8 donne. Mia madre era incinta ogni 2 anni, noi figli ci passiamo 2 anni l'uno. Ora siamo rimasti 7 in totale perché una sorella e tutti e 4 i fratelli maschi sono morti, tutti per la stessa malattia. Il primo è morto a 56 anni, il secondo a 53. Antonio aveva 55 anni. Camilla e Tommaso entrambi a 49 anni. Nella nostra famiglia si è manifestata a tutti più o meno alla stessa età ed è durata circa una decina d'anni.
Io inizialmente, quando ero ragazzina, l'ho presa male, stavo male, non ne volevo sapere niente. Eravamo tanti, mio padre si era risposato. Noi ci siamo dovuti mettere a lavorare presto. Io ho preso la licenza media, poi purtroppo a scuola non ci sono potuta andare: all'età di 13 anni già lavoravo.
Mi sono sposata a 27 anni, ma non ho mai parlato veramente della malattia con mio marito. Poi purtroppo a Taranto 30 anni fa (e tuttora), la malattia di Huntington non si conosce. Quando ho avuto i figli, ne ho parlato al pediatra, per capire se esistessero dei vaccini o qualcosa che potesse in qualche modo proteggerli. Lui mi disse che non si poteva fare niente, quindi siamo andati avanti così. Inizialmente ci dicevano che forse non era vero che era ereditaria, che non era vero che la potevano sviluppare anche i figli. Io non mi sono mai informata, non avevo neanche i mezzi. Solo ora tramite i figli miei ho iniziato a capire un po' di più su questa malattia. A distanza di un anno, senza programmarlo ho avuto il secondo figlio. Lì ho iniziato ad avere un po' di paura. Dopo sei anni mi hanno convinta a fare il terzo figlio perché avevo dei problemi che mi avrebbero risolto facendo un parto con il cesareo.
Tra i miei fratelli e sorelle, nessuno ha voluto fare il test. Solo due sono più piccole di me, tutte le altre sono più grandi, chi ha superato 72 anni, 70, 69 quindi a questo punto penso siano fuori anche loro: si sarebbe dovuto manifestare prima anche a loro come è successo a tutti quelli della famiglia. Io, anche se ero fuori età, ho fatto il test per i ragazzi. Personalmente il dubbio su di me l'ho sempre avuto. Notavo piccoli segni: ad esempio a me si alza l'alluce come succedeva a mia fratello Tommaso, ho degli scatti che mi portavano a pensare di avere la malattia. Quindi io stavo male, però mi è andata bene, sono risultata negativa. Non saperlo fino a poco tempo fa, restare con il dubbio mi ha condizionato tutta la vita. Siamo una famiglia molto unita. Abbiamo sempre cercato tutti di reagire, stiamo insieme nel bene e nel male.
Con mia cognata Giuliana facevamo a turno la notte in ospedale per Antonio. Le altre sorelle non ci potevano dare aiuto più di tanto. L'ultima sera io ho visto lui che stava malissimo, chiamai a mia sorella grande e dissi "venite perché non penso che domani vedrete ancora Antonio". Mia sorella non poteva lasciare Tommaso da solo a casa e quindi venne in ospedale anche lui. Mia sorella gli aveva fatto la lezione "Tommaso, mi raccomando non piangere perché Antonio è vivo e non vogliamo che senta qualcosa". Ricordo che lui venne, si avvicinò al fratello, gli baciò la fronte e andò a sedere. La cosa straziante è stata al funerale. Al funerale di Antonio, Tommaso ha pianto la morte sua. Sentivamo la gente che lo vedeva piangere sulla sedia a rotelle e diceva "perché l'hanno portato quel ragazzo?". Un'amica mia ha preso le nostre difese dicendo "ma che ne sapete voi? perché il fratello non deve assistere?". Lui piangeva tanto e diceva "il prossimo sarò io, il prossimo sarò io". Però a differenza degli altri, Tommaso l'aveva accettato, aveva sempre il sorriso sulla bocca. Era un amore reciproco il mio e il suo. Quando andavo a trovarlo a casa e mi vedeva era tutto sorridente; ora quando andiamo al cimitero, mia sorella rivolgendosi alla foto di Tommaso gli dice "ah, stai ridendo che è venuta a trovarti la tua sorella preferita?".
Tommaso è stato diverso dagli altri. Aveva la malattia però non si vedeva. Fino a due mesi prima di morire lui mangiava ancora da solo, la pasta a pezzi; solo negli ultimi 2 mesi abbiamo iniziato a frullare tutto. Fino alla fine è sempre rimasto lucido. Prima di morire, a parte che la mattina aveva cantato "Felicità" di Al Bano, chiamava la figlia, non riusciva più a pronunciare Elena e la chiamava "Ele". Chiamai Elena e le dissi di venire subito, lei venne correndo gli dette il bacio come era solito suo, al solito posto e gli disse "papà, Elena sono". Loro avevano un accordo che lei aveva chiesto al padre di non morire in sua presenza. Dopo 5 minuti che la ragazzina è uscita dalla stanza lui ha esalato l'ultimo respiro.
Il mio essere mamma l'ho vissuto male per il semplice motivo che avevo paura di aver dato quel peso ai figli miei. Quando andavo a trovare mio nipote Piero in clinica stavo malissimo: vedevo qualche rara somiglianza con mio figlio, ma non riuscivo a parlarne con nessuno.
Io mi sono sollevata solo 2 anni fa dalla preoccupazione per i miei figli. Io l'ho fatto soprattutto per loro, io ormai la mia vita l'ho vissuta. Loro si era già informati per farlo loro, mi dicevano che se non l'avessi fatto io sarebbero andati loro. La piccola diceva che se ce l'avesse avuta sarebbe andata a divertirsi, a prendersi le sue libertà e a fare la barbona. La grande forse non l'avrebbe presa troppo male. Secondo me, conoscendolo, l'avrebbe presa molto male mio figlio: lui ha due bambini, di 2 e 5 anni.
Quel giorno quando il Prof. Squitieri mi ha dato l'esito io piangevo dall'emozione, lui mi diceva "ti abbiamo detto che non ce l'hai, figuriamoci se ti dicevamo il contrario". Era una cosa da cui mi sono liberata dopo tanti anni. Ho iniziato anche con loro a parlarne, prima non lo facevo mai anche per paura. Pensavo dentro me stessa che potessero considerarmi una mamma incosciente per averli messi al mondo sapendo di questa malattia; loro non me l'hanno mai detto, erano tutte supposizioni che mi facevo io. Un po' di sensi di colpa ce li avevo, anche se loro non me lo facevano pesare.
Avrei dovuto cercare di capire meglio tutti i risvolti di questa complessa malattia. Mi sono sempre informata con tutti i mezzi che avevo a mia disposizione, ma informarsi non equivale necessariamente a comprendere fino in fondo.
Testimonianza raccolta nell'ambito del progetto