Loredana
Loredana, 45 anni - Noicattaro (BA)
La malattia è entrata nella mia famiglia con la nonna paterna. Mia madre mi ha raccontato che, quando era fidanzata con mio padre, si era già accorta di qualcosa che non andava rispetto ai suoi modi di gestire i movimenti. Allora, ovviamente, non si conosceva la malattia Huntington e non si pensava assolutamente a niente del genere. In tarda età, però, la Malattia è apparsa in tutti i suoi sintomi: ricordo che mia nonna è stata curata come se fosse affetta da Parkinson. Io ero piccola quando si è aggravata e ha mostrato i segni più evidenti, avevo circa 9 o 10 anni. Lei non era più autonoma e piano piano manifestava tutto ciò che ha a che fare con la Malattia e la sua disabilità: non parlava più bene, si trascinava, stava sempre seduta e accasciata da una parte, bisognava accompagnarla al bagno, prepararle da mangiare e imboccarla.
Io non chiedevo. Mi sembrava semplicemente una nonna che stava invecchiando …
I figli di nonna (sette tra fratelli e sorelle) e le nostre famiglie si alternavano per stare con lei col nonno. Non esistevano ancora le badanti, si facevano i turni settimanali. Nella settimana in cui toccava a noi, quando mia madre andava a lavorare lasciava me a casa con loro. Facevo i compiti e contemporaneamente mi occupavo di lei: la portavo in bagno, la imboccavo durante la cena e, nell’ultimo periodo, se era necessario, le cambiavo i pannolini. Anche se ho fatto tutte queste cose per lei, non credo di averla mai conosciuta davvero: la malattia non mi ha fatto mai incontrare davvero mia nonna, lei non era più lucida. Questo è stato un mio grosso dispiacere: non averla potuta conoscere veramente.
Quando è morta, insieme a nonna è scomparsa anche la Malattia, o almeno, così abbiamo creduto. Certo non potevamo immaginare che la sua malattia fosse ereditaria, così nessuno ci ha più pensato.
Ma la malattia è ricomparsa attraverso un mio zio, il terzo dei fratelli, quello che ha mostrato i sintomi in età più giovane, verso i 50 anni. Mio zio, come mio padre, ha sempre avuto un carattere forte, molto irruento, scattava per un nonnulla: passava all’improvviso dalla scontrosità alla gentilezza.
Quando la malattia è riapparsa nello zio, ho avuto la percezione che ci fosse come “un senso di omertà” o di vergogna nella famiglia, non se ne parlava. O meglio, non se ne parlava apertamente. Parlarne avrebbe significato ammettere che c’era effettivamente un peso da caricarsi sulle spalle e nessuno se la sentiva. Probabilmente tra fratelli o cognati qualcosa si dicevano. Io non ho mai chiesto, né ai miei cugini né ai miei zii e loro mai ne hanno parlato con noi. Mio zio aveva una malattia, anzi ‘la Malattia’ di mia nonna, ma questa informazione inizialmente non è emersa chiaramente. I sintomi, però, erano evidentemente simili.
Io in quegli anni sono stata lontana dalla mia famiglia perché vivevo come studentessa fuori sede a Bari e, dopo la laurea, ho iniziato a lavorare, quindi non sono più rientrata a casa dei miei genitori: conducevo una vita autonoma, piena di novità professionali e vivevo in modo molto distante le vicende della mia famiglia. Mentre i miei cugini hanno vissuto più direttamente l’evoluzione della malattia del padre, mio zio e, forse, per paura di parlarne o semplicemente perché ero troppo presa dalla mia nuova vita, non ho avuto modo di confrontarmi con loro né ho cercato delle occasioni per affrontare l'argomento.
Io ho un fratello più grande e una sorella più piccola. Tutti noi abbiamo intrapreso studi e carriere professionali che ci hanno portato lontano dalla famiglia. Questa lontananza ci ha portato a vivere come se la malattia non ci riguardasse.
Mi prendo anch'io le mie responsabilità, non ho mai cercato informazioni, come se fosse una cosa che non poteva coinvolgermi in prima persona; avevo la mia vita, facevo le mie cose, le mie scelte.
Poi zio si è aggravato notevolmente, ha perso la sua autonomia in poco tempo.
La malattia è durata tanto, più di 20 anni, ed è morto qualche anno fa di polmonite. La sua malattia non ha piegato solo lui, ma ha anche influenzato le scelte dei miei cugini, modificando le loro aspettative e i loro sogni.
Pian piano, la malattia ha iniziato, come una macchia d’olio, a manifestarsi anche in altri fratelli aggravando la percezione di tutti rispetto ad essa: dapprima si è manifestata in una mia bellissima zia, per tutti noi la più bella ed effettivamente la più giovane. Abbiamo iniziato a vedere quei “movimenti” anche in lei e sembra che tutto fosse scaturito all’improvviso, nel rivivere un momento doloroso della sua vita. Poi un altro zio, il più piccolo dei sette, all'improvviso da una vita "normale" ha vissuto una forte depressione e a seguire hanno iniziato a manifestarsi sempre quegli strani movimenti. E, subito dopo, ancora un'altra zia.
Nel gruppo dei cugini - e noi siamo davvero tanti, la maggior parte con figli - siamo molto uniti nella vita sociale. Organizziamo cene, feste e soprattutto serate danzanti, un po' come facevano i nostri genitori con i rispettivi fratelli: non ci si perdeva mai di vista e ogni anniversario o avvenimento era un’occasione per incontrarsi e organizzare qualche festa e credo che il tutto servisse anche per esorcizzare lo spettro della malattia.
Ma parlarne apertamente, per noi ancora oggi è dura, poiché fa riemergere sofferenze vissute nel passato e proietta le paure verso il futuro: ancora oggi io riesco a confrontarmi a cuore aperto solo con pochi dei miei cugini e con poche persone fuori dalla mia famiglia.
Ho iniziato davvero a prendere consapevolezza di quanto la malattia facesse parte della mia vita solo quando abbiamo iniziato a vedere i sintomi della stessa in mio padre.
Mi sono sposata e abbiamo messo al mondo tre figli, quando ancora non c'era in me una reale consapevolezza dell’Huntington. Quindi mi sono potuta godere le mie maternità, senza pensare alla malattia: non sapevamo ancora che fosse ereditaria e questa “ignoranza” ci ha fatto vivere quei momenti serenamente. Non so come l'avrei gestita se avessi avuto maggiore consapevolezza: con tutte le difficoltà che in Italia si vivono con un'eventuale fecondazione assistita!
Mio padre è stato il fratello che ha manifestato segni della malattia in età più avanzata ed essendo il più grande dei fratelli, in cuor nostro e senza dirlo apertamente, speravamo che almeno lui fosse stato risparmiato. Invece anche su di lui abbiamo iniziando a notare qualcosa: sempre quegli strani movimenti.
Mio padre, come un po' i suoi fratelli, ha sempre avuto un pessimo carattere, con scatti d'ira improvvisi. Relazionarmi con lui è stata dura come figlia e questo suo lato comportamentale mi ha spinto a cercare una mia autonomia economica e professionale: oggi non posso che ringraziarlo!
La malattia si è manifestata in maniera più evidente in lui in seguito a un periodo stressante: la chiusura del suo negozio, un'attività commerciale aperta e gestita da lui con grandi sacrifici e successi. Nel suo immaginario, questa attività doveva perdurare negli anni grazie ai suoi figli. Ma all’improvviso, rispetto alle sue aspettative, l’ha dovuta chiudere. Il suo più grande dispiacere è che nessuno di noi figli ha rilevato l’attività, decidendo di intraprendere strade completamente diverse. E anche se lui avesse realizzato il suo sogno aprendo una sua attività, arrivando alla sua meritata pensione e i suoi figli fossero completamente autonomi da lui, non riusciva ad esserne orgoglioso: la chiusura del suo negozio l’ha vissuta come un fallimento, creandogli un forte stress emotivo. Hanno iniziato così a manifestarsi in maniera più evidente i sintomi della malattia, e non solo quelli legati ai movimenti. Erano diventati preoccupanti i suoi comportamenti e i suoi pensieri: è diventato più aggressivo e ha cominciato a sospettare di tutti e tutto.
Con i miei fratelli, abbiamo iniziato a interessarci per capire davvero la malattia, attingendo a tutte le informazioni reperibili anche su internet. Ed è così che mia sorella ha trovato la LIRH e i suoi preziosi articoli dove abbiamo ritrovato nelle testimonianze di altri pazienti, una strada da percorrere e maggiore chiarezza su cosa fosse realmente la malattia di Huntington.
Ma ciò che è stato più difficile è rendere consapevole mio padre della malattia: con lui in quelle condizioni, nel pieno dei suoi pensieri sospettosi e negativi, era quasi impossibile poter affrontare tali argomenti e condurlo a ragionare. Non ha voluto fare il test inizialmente, non ne voleva sapere, ma ormai era evidente: anche la nostra famiglia era stata “contagiata” dall’Huntington.
Di tutti quei sintomi maggiormente legati agli aspetti comportamentali e psicologici, abbiamo preso consapevolezza troppo tardi. Lui ha sempre avuto reazioni violente che non ti aspettavi, che non ti spiegavi. Quelli erano probabilmente già primi segnali della malattia, solo che noi credevamo si trattasse semplicemente del suo ‘temperamento’, tipico della nostra famiglia. Dal momento in cui abbiamo capito, grazie al prof.re Squitieri e alla sua equipe, che questi suoi comportamenti erano anche l’espressione della malattia e dal momento che papà ha iniziato ad intraprendere una terapia specifica, è cambiato: ho visto un padre diverso. Riportarlo alla lucidità mentale e ad un maggiore equilibrio psicologico è stato il passo fondamentale nel trattamento della malattia, che lo ha aiutato anche a gestire e a coordinare meglio i movimenti ed il suo equilibrio, a intraprendere in modo consapevole un percorso che lo aiuta a tenere sotto controllo la malattia.
Noi siamo tre fratelli e ad oggi nessuno di noi ha fatto il test. Io non sono ancora convinta se farlo o meno. Non so come potrei affrontare psicologicamente questo percorso. E adesso che ormai ho creato la mia famiglia, non ho un motivo oggettivo per intraprenderlo. Se ci fosse una cura allora sarebbe diverso, ma ora non potrei fare nulla di concreto in caso di risultato positivo.
Inoltre c'è anche un senso di protezione verso i miei figli. Voglio pensare in positivo e quindi voglio sperare che non ce l'ho io e di conseguenza, almeno per adesso, non interessa loro.
Ma indipendentemente dalla possibilità che io abbia l’Huntington, la Malattia ormai fa parte della mia vita. C'è tutta la storia della mia famiglia e la situazione di mio padre che ancora deve evolversi. Diciamo che di me sono preoccupata relativamente: io ho potuto fare le mie scelte per realizzarmi e avere adesso la malattia potrebbe incidere relativamente nel mio percorso futuro e, sicuramente più di prima, penso che dobbiamo cogliere il dono della vita vivendo il presente, piuttosto che un futuro incerto.
Non ne parlo liberamente con gli altri perché ho il timore che informarli su una mia presunta malattia invalidante, possa ledere una serie di rapporti da un punto di vista professionale o anche di relazioni personali. D'altra parte, non voglio nascondere la malattia o metterla da parte, me ne sto occupando attraverso le iniziative, voglio che se ne parli anche attraverso le associazioni come la LIRH: per adesso questo è il mio modo di affrontarla e vivermela. Per come sono fatta io, fare qualcosa di concreto e costruttivo placa i miei stati d'animo negativi.
Dopo tutto il percorso di conoscenza della malattia partendo da mia nonna e arrivando oggi a mio padre, penso che l’Huntington, anche in presenza di sintomi, non bisogna viverla come un appello all'invalidità. Forse è un mio modo razionale di proteggermi. Ma se riuscissimo fin dall'inizio a seguire un percorso sia di consapevolezza della malattia che di cure opportune, fatte in un determinato modo, si può conquistare una qualità della vita che prima era inimmaginabile e soprattutto superare quel senso di vergogna, inadeguatezza e paura di rimanere soli. La conoscenza in qualche modo ci può aiutare: è l'unica arma che abbiamo per poter vivere in maniera più serena la nostra vita con l’Huntington.
Testimonianza raccolta nell'ambito del progetto: